Paolo Moreno
Maria Cristina Crespo

da Images Art & Special

Nelle nostre case entrano giocattoli apparentemente innocui: scatole, telai, cornici che contengono manichini. Accedere al mondo di Maria Cristina Crespo è facile. Difficile uscirne indenni. L’occhio sfiora le forme policrome da lei disposte, rassicurato dalla scoperta di una concretezza tattile. Ci si addentra in quei tabernacoli grazie alla verosimiglianza di un ambiente o di un paesaggio dipinto sullo sfondo: finiamo invischiati da una pianta carnivora. Il desiderio di contenzione esercitato dall’autrice nel collezionare afflussi dall’arte di tutti i tempi, assedia il visitatore in un labirinto mentale. Quella che a prima vista pareva l’ingenua miniatura del museo immaginario di André Malraux si rivela insondabile come la biblioteca cosmica di Jorge Luis Borges. Iniziati all’accattivante nomenclatura mitica, sprofondiamo presto in un’interiorità dolorosa, verso la verità di una setta proibita. Malefico diamante, la spiegazione del mondo si cela incastonata tra falsi ori, cascami di damasco e broccato, frange e trine, che mai finiranno d’illuderci in una sequenza di quinte elusive.
All’origine c’è l’infanzia dell’autrice nella magica archeologia di Palestrina: l’antro delle sorti, il sacello di Iside, il mosaico del Nilo, il colosso in marmo bigio della Fortuna. La prozia di Cristina fu tra le pie donne ammesse a rivestire la Madonna del Carmine. Ancestrale mozione ad ammantare i feticci che modernamente recitano in box: ma sono lari di un’incognita dinastia precristiana, protettori di bambini che giocavano dove era nato Giovanni Pierluigi, penati della città perduta sotto le bombe.
Segue la ricognizione delle arti liberali della nostra epoca: studi classici, laurea in argomento medievale, diploma di perfezionamento, un’iniziale applicazione di restauratrice, la collaborazione con Angelo Canevari in fonderia, attività museografica, pagine da giornalista, la voce che si unisce a un pregiato coro di musica barocca (il C.I.M.A.). Infine una famiglia nell’antico casale di posta sulla via Cassia, che è riferimento per una cerchia di artisti, di critici, d’intellettuali - diciamolo anche se non è di moda - civilmente impegnati. Dai rivoli di una biografia minimalista, sgorga il mito in un’interpretazione fuori del tempo che dà spazio all’arbitrio inventivo e consente l’innesto di suggestioni svariate: la tradizione popolare, e i teatrini plastici del Serpotta; le marionette, e i sofisticati collages praticati dalla nobiltà palermitana alla fine del Settecento; Dino Buzzati, e il simbolismo di Gustave Moreau; viaggi in oriente e nell’America meridionale, oppure un corso di potatura di rose. La Musa si nasconde nel professore soccorrevole, nel passante anonimo, nel casuale viaggiatore con cui scambiare in treno una parola che al ripensamento ingigantisce e diventa decisiva: presenze propizie, angeli di una laica annunciazione. Piuttosto che una corrente della produzione contemporanea, si ravvisa nell’inesausta fattura l’impronta di letterati, filosofi e poeti: maîtres à penser del Novecento evocati da un’opera che gioca all’intertestualità come i libri dei migliori scrittori.
Un ciclo è dedicato a Il ramo d’oro di James George Frazer, antropologia del sincretismo, evoluzione di culti e rituali, iterata fascinazione dello spettacolo: Altare di Orfeo e Altare orfico in varie contingenze (1994). Ci sono visionari Diorami dall’inferno, tra cui la pallida Animula bökliniana (1993), Madrigale a Prosperpina (1993), Altarino di Iside (1993), Edicola di San Giorgio (1993) e L’amore di Villiers (1994). I cammei, fantasiose versioni al pantografo dalle gemme Farnese: il Miracolo, lo Splendore, la Morte di Giulia Soemia, Giulia Gonzaga, Pasolini, e la portentosa Apoteosi di Elagabalo, che incarna le parole di Antonin Artaud: “è qui che si manifesta una sorta di anarchia superiore, in cui la sua profonda inquietudine prende fuoco, ed egli corre di pietra in pietra, di splendore in splendore, di forma in forma, di fiamma in fiamma, come se corresse di anima in anima, in una misteriosa odissea interiore che nessuno dopo di lui ha più percorsa”. L’ardua sfida a Novalis: Altura del mondo appena nato, Splendido intruso, Commiato del giorno (1995), Sacro sonno, Malinconia, L’oscuro grembo del tumulo, Sfere celesti (1996), Commiato (2002); titoli sintomatici che competono senza ulteriori distinzioni a soggetti scevri di banalità illustrativa, pieni della sapienza degli Inni alla notte. Tra le ultime cose un’inquieta Tanagrina (2001), la cui scheda tecnica pare un elenco poetico di Jacques Prévert: “legno, stucco, stoffa, specchio, carta ologrammata, acrilico”.
Sarebbe inutile dividere in sezioni un percorso creativo nutrito di riprese e ritorni, applicare etichette temporanee a un’intuizione profetica senza eguali che si rinnova a ogni stagione. Il saggio più completo (Achille Bonito Oliva, Crespo, Milano, Electa 1999) intabula esteriormente i manufatti secondo il colore dominante: bianco, rosso, oro, blu, celeste, nero. Un’eco della trilogia di Krzysztof Kieslowski: Film Blu, Film Bianco, Film Rosso, fonti non trascurabili dei trofei d’amore, come Cristina definisce i propri manufatti.
Non molti i protagonisti maschili: Angelo Boliviano (1997), San Sebastiano di Mishima (1997), Dittico di François Villon (1996); il Templare napoletano (1990), pomposo omaggio a Francesco Solimena; la quotidiana sacralità de Il principe Igor (1997); Scatola di Enea Silvio Piccolomini (1994); Shakespiriano (1998); Leone XIII nell’emblematico A.R.A.T.O.R. contro un cielo pitagorico; la surreale sceneggiatura di Miracolo a Milano per il centenario di Cesare Zavattini, celebrato nella natia Luzzara il 2002; ma chi ha bruttato il viso sognante del principe fenicio nelle Nozze di Cadmo e Armonia? Ricordo il quadro alla mostra Alma e le altre (1998), presso la Libreria Remo Croce, con l’oscuro antro di Pannychis, lo stupefatto, femminilizzato Kairós, il fiabesco campo degli Gli uomini drago, e l’Edicola di Giocasta in una serie ellenica dedicata a La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt. Il sottotitolo di quella manifestazione, Storie e leggende di donne, investe l’intero operare di Cristina, il continente nero di una femminilità intrepidamente esplorata.
Paradigma la fiera mostruosa di Edipo e la Sfinge (1994) che segna il destino non solo del giovane tebano, ma di chiunque s’inoltri nell’avventura figurativa con gli occhi di sir Frazer. Processione di fatali ammaliatrici sul fondale dell’Acquario russo con Sirene belle époque (2002), pittoscultura a tre piani prospettici, capolavoro di una tecnica coscenziosa, per cui l’artefice stratifica materiali metamorfosati da pazienti alchimie. Un’altra Sirena plasticamente agghindata Liberty sta nel centro, e al di qua del vetro la coppia umana che osserva la numinosa parvenza marina.
Da una profana Natività (1992), la fanciullezza trae il volto torbido di Alice nel paese delle meraviglie (1998), più consono alla repressa pedofilia di Lewis Carroll che alla pedagogia del racconto. Una giovinetta si espone inerme allo Stral di foco (1995), piccolo, lirico dramma decadente da Il cavaliere della rosa di Hugo von Hoffmannsthal. Il desiderio trova espressione nelle Serenate di Pulcinella (1989), rivolte alla dama affacciata a un proscenio che fa da balcone; nel Madrigale a un dolce usignolo (1994) ispirato al Festino della sera del Giovedì grasso di Adriano Banchieri (“o dolcissimo usignolo, tu sopra i verdi rami tutta la notte la tua amica chiami e con soavi accenti fai dolci i tuoi lamenti: io tra i più forti orrori di miei pensier, sospiro la mia Clori, da cui lungi mi vivo, d’ogni piacer, d’ogni dolcezza privo”); infine nell’estenuato Rococò (1993) dove il frivolo costume inclina alla parodia. L’impianto sepolcrale nell’Arca della damigella di Scarlot (1991) è smentito dagli occhi vividamente sgranati della titolare che vi sta distesa a custodire la lettera di Lancillotto. Finisce in tragedia l’illecita passione della sacerdotessa di Artemide che vede perire l’amato tra i flutti dell’Ellesponto e si precipita a seguirlo ignuda nella morte: Ero e Leandro (1991); in parallelo gli studi per la morte di Ofelia, annegata nel cellophane (1987-1991). Altrove è la donna a farsi giustiziera, rediviva Giuditta per il Cenotafio di Carlotta Corday (1991), mentre Marat si dissangua nel semicupio sulla falsariga del celebre dipinto di Louis David.
Amanti nudi si abbandonano nel verde intestato a una canzone naïve di Patty Pravo, Il giardino dell’amore (1995): “il cuscino sembra un prato dove il vento si è fermato”; obbedienti i protagonisti si rivestono nel Giardino dell’amore, n. 2 (2002), a tutela di un’autentico esemplare del quarantacinque giri della cantante.
Il sesso è tormento. Le carni voluttuose di Danae (1992) si deformano alla violenza invasiva dell’oro divino. Nel Dittico di François Villon (1996) lo stucco rosa (modellato su di un’anima di nylon e vinavil) espone un torso alla lussuria tra il nero dei drappi: così nella blasfema Icona per Jean-Jacques Lequeu (1999), l’architetto illuminista da cui viene la Monaca impudica (2000), scioccante manifesto del libertinaggio. Un sospetto di demoniaco meticciato turba il tenebroso splendore di Bella come Nefertari (1995), commentata dall’epigrafe “mal d’aurore”, fonetica allusione ai crudeli Canti di Maldoror del conte di Lautréamont. Zenobia (1993) sarà condannata dall’imperatore Aureliano alla prigionia. Un’allucinata regalità domina il gruppo di Elisabetta e Cristina (1990).
Il rapporto col divino incupisce nell’isteria meridionale della Veggente (1993), domestica clausura tra le fotografie dei morti e i santini allo specchio del comò. Quando si salveranno le anime arse dal fuoco purificatore nell’Aedicula fantastica (1985)? Il mistico strazio transita per un’interminabile via crucis di Svenimenti umbri (dal 1987) e Dolenti duecentesche (1994) fino alla Veronica Massonica (1999), concepita nell’esoterica Cappella San Severo di Napoli, e alla Visione biblica, sofferta anche nella prorogata esecuzione (1979-1987): poiché ogni procedura in questo travaglio artigianale è componente del contenuto, pertiene all’intensità finale del messaggio. La personale vocazione trasfigurante è quella che per metafora Cristina adombra nella Monaca messicana (1999), secondo la promessa di Giovanni della Croce “tu nella tua bellezza mi trasformerai”, per sublimare in apoteosi: Speranza Macarena (1994), l’edicola dell’Incoronazione (1993), Hodighitria (1993), la Vergine sotto l’Angelo precipitato da un cielo nabis (1996), la Madonna di Capo d’Orlando (2000) intrisa di sicilitudine, e l’inedito Idoletto medievale (2002) stilizzato nella maniera di Ottone III, attraverso le lenti romantiche del Gregorovius.
Quando non è sopraffatta dall’esuberanza carnale, la spiritualità rischia di perdersi nell’esotico: l’arazzo indonesiano e le piume di Iman (2002), la modella d’origine araba sposata da Mick Jagger dei Rolling Stones; o finire soffocata dall’ornamento nella sontuosa Pavonessa (2002). Affiora appena in Madame de T. (1997), da La lentezza di Milan Kundera, occasione anche a noi per risalire alla positività dell’amore e dell’arte: “rallentando la corsa della loro notte, dividendola in parti distinte e separate, Madame de T. è riuscita a trasformare il breve arco di tempo loro concesso in una meravigliosa architettura, in una forma; dar forma a una durata è l’esigenza della bellezza, ma è anche quella della memoria”. La salvezza spira sotto la luna ne La sposa del vento (1997), il solo quadro dove un uomo sorride, accanto alla compagna addormentata. Ancora un d’après, dall’omonima tela di Oskar Kokoschka a Basilea, notturno commento al mistero di Alma Mahler: “ho raccolto e accumulato in me ricchezze, la morte più non mi spaventa, ho ritrovato quell’armonia che possedevo da bambina, in questa luce mi pare di avere camminato in paradiso”. Torniamo a riveder le stelle nell’incantata Via lattea (1995), diletto non effimero della proliferante materia cosmica che s’incarna di bianca e tenera donna: siamo allo zenith di un palcoscenico insolitamente esteso a produrre la siderale seduzione.

Paolo Moreno