Angelo Capasso
Maria Cristina Crespo,
"Pittosculture"

apparso sulla rivista "Segno"
N°178 aprile-maggio 2001

Per la civiltà postrinascimentale, I’ “Arte Sacra” è l’espressione di un addomesticamento di quel “sentimento irrazionale di terrore e allo stesso tempo di fascinazione, con cui s’esprime la relazione dell’uomo col Dio, il numinoso”, che Rudolf Otto indica alle origini di ogni sentimento religioso. Tale addomesticamento ha condotto a due conseguenze speculari: ha dato vita alle idee di giustizia, alla legge morale, al concetto di peccato da una parte, dall’altra le immagini delle divinità hanno perso il loro mysterium tremendum, sono diventate immagini e raffigurazioni di misericordia, di provvidenza, del perdono, elaborazione di un parlamento di Santi e santini. “Dio è la più grande opera dell’uomo, dice Camille Paglia, e le sue parole centrano la dimensione del Sacro nell’arte, squarciando in due il “cielo personificato” (questo è il significato etimologico della parola “Dio” in ebraico) per imporre una condizione di religiosità ecumenica della comunità dell’arte che esprime attraverso le opere il superamento delle tradizionali barriere d’identità nazionali, di lingua o di religione, per estendersi verso nuovi territori creativi, una cultura religiosa (“religio” ha la stessa radice etimologica di “raccogliere”, “rilegare” “tenere assieme”) in grado di accogliere ogni tradizione, vivendo non per porre limiti o per sottrazione, ma per addizione e moltiplicazione.
Una sfaccettatura di questo prisma si ritrova nel lavoro di Maria Cristina Crespo (che è entrato a far parte di una prestigiosa collezione d’arte di fine ‘900 denominata “Translacje” dal titolo della mostra che si è tenuta la scorsa estate a Piotrkòw Trybunalski, in Polonia, un progetto a carattere internazionale a cui hanno preso parte circa 100 artisti di tutto il mondo). La sua produzione strabocca di storie e miti provenienti da settori più disparati della cultura e dell’arte. Per la Crespo l’invenzione che genera l’opera può nascere indistintamente da uno spunto letterario o dalla tradizione orale, cultura “alta” e cultura “popolare” parimenti fonte d’ispirazione, ma quest’ultima mostra maggiore potenzialità di ideazione in quanto più soggetta agli umori, alle impressioni, alle assonanze di un mondo antico che proprio attraverso forme rituali di religiosità, nei detti o nei proverbi.
Il nomadismo culturale della Crespo rientra in una indagine trasversale che annulla categorie e canoni certi, quali l’antico e l’archeologico o il mito, di cui le edicole sono essenzialmente la maschera (la parola greca mimeishai, nella sua parentela etimologica con mimesis, indica “il portare una maschera da parte dell’attore” come nota Jacques Derrida), il terminale nel presente, il feticcio del mito, la traccia solida del Sacro scomparso che si ritrova solo in piccoli frammenti nella religiosità primitiva e nella superstizione popolare: le statuine sacre, le madonnine, i santini e tutta quella sovrapproduzione di idoli che rientrano nei prodotti kitsch del sentimento di venerazione che nella religione ha sostituito il terrore del Sacro. Al di là dell’“eccesso” decorativo oltre i miti e le narrazioni, nel lavoro di Cristina Crespo esiste poi una preziosa dimensione individuale, accuratamente celata tra i materiali che normalmente usa nel suo lavoro: i merletti, velluti, tessuti, spille e piccoli oggetti utilizzati per il rituale creativo esercitato con l’ago e il filo. Sono elementi magici che attinge dal proprio reservoir personale, i segni che intrecciano il suo lavoro dell’artista con una più antica tradizione materiale, scomparsa nel sacro ma che Cristina Crespo resuscita nell’arte.

Angelo Capasso