Achille Bonito Oliva “Il titolo sublime dell’arte e grottesco dell’opera”
Achille Bonito Oliva
“Il titolo sublime dell’arte
e grottesco dell’opera”
monografia ELECTA
«Io guardo sempre i quadri,
buoni o cattivi che siano,
tutti,
nei negozi di mobili,
negli alberghi di provincia…».
Come un vero bevitore Picasso
si nutriva di qualunque cosa,
Brunello o Tavernello.
Spesso un buon quadro
mi viene fuori
contemplando modelli
di dubbia natura…
È dalla scultura greca che l’arte occidentale vive di nostalgia, la perdita di un’ armonia classica che si ritrova ancora nei musei di archeologia, nella statuaria e nei resti dei templi disseminati nell’Ellade.
Arte classica per eccellenza era questa, epifania di una perfezione espressa attraverso l’intesa tra pensiero e materia ed il sopravanzare del concetto veicolato dalla forma. Così anche i templi erano il risultato di un progetto che investiva anche l’indagine del territorio, geografie del suolo e conoscenza degli elementi atmosferici. Tutto concorreva alla costruzione e dunque l’architettura era la sintesi di un intreccio tra il costruito e il preesistente naturale.
Dopo la classicità, come sappiamo, l’ellenismo diventa la cultura portante di una memoria che veicola perfezione e armonia della statuaria e dell’architettura del classicismo greco. L’ellenismo à proprio l’espansione internazionale, fuori dal territorio ellenico, di un atteggiamento culturale che incontra altre culture fino ad arrivare alla positiva ibridazione dell’ arte greco—romana.
Questo significa che viviamo da sempre immersi nella postmodernità, frutto di contaminazione e citazione, riconoscimento di culture altre intrecciate tra loro, segno ulteriore di un allargamento dei confini e di una comunicazione tesa oltre ogni autarchia. L’arte contemporanea é proprio l’espressione di un’ ansia sconfinante e di una desiderio di scambio transnazionale, assimilazione di codici altrui che arrivano fino alla cleptomania di stili extra-comunitari, assunzione per esempio dell’arte africana da parte del cubismo, del bricolage da parte del dadaismo e dell’arte popolare da parte dell’astrattismo che teorizza l’opera totale.
Dunque modernità e postmodernità risultano essere le convergenze parallele di uno strabismo culturale ricco di esiti fino alla possibilità di sconfinare oltre lo specifico da parte delle avanguardie storiche e delle neo-avanguardie che hanno assunto a stabile strategia il metodo dell’ibridazione e della interdisciplinarietà.
Maria Cristina Crespo ha fondato su questo atteggiamento il suo metodo creativo per realizzare un vero e proprio teatro iconogra- fico in cui i personaggi e interpreti sono frutto di una citazione e rinvio alla letteratura, arte figurativa, filosofia, religione, affabulazione popolare, tutte attraversate da una fantasia che arriva all’uso virtuale della storia passata.
L’opera dell’artista romana nasce dalla sedimentazione di una sensibilità che si articola attraverso un’attenzione trascorrente dall’ottica innocentemente creaturale a quella consapevole della maturità.
L’ibridazione é il risultato di una storia culturale alle spalle ma anche di una opzione personale, lo sconfinamento oltre la cornice di ogni specifico e l’approdo ad uno spazio franco e totale dove i generi si incontrano e dialogano tra loro.
Non c’è purismo nell’opera della Crespo, non pratica laboratori formali, piuttosto cerca l’intensità epifanica di un’ immagine che è sempre frutto di un incontro.
Generi e linguaggi parlano tra loro secondo i dettami di un senso di onnipotenza che solo l’infanzia e l’arte posseggono.
Romantico è l’afflato poetico della Crespo per capacità di contaminazione tra cultura alta e quella bassa, affabulazione nordica e clima mediterraneo, grottesco e sublime.
I titoli appartengono sempre al campo del sublime, riferimento ad una lontananza storica e culturale vagheggiata ed arpionata dal desiderio.
Il desiderio si trasforma in citazione che rovescia nel presente dettami iconografici e ritagli formali. Il sublime per abitare il presente deve assumere necessariamente il tono del grottesco, attualizzazione di un passato altrimenti non passibile di fedele citazione.
Struggente è l’infedeltà linguistica della Crespo che sembra filtrare attraverso l’ottica soggettiva l’oggettività di molte storie culturali. Forte è lo sforzo del soggetto, dell’Io artefice di un’opera che deve contenere regressione e veloce recupero del presente.
Per questo l’opera della Crespo non è mai nostalgica, il sigillo del grottesco segue tutta la sua produzione come un ricordo trasferito nell’attualità mediante l’assunzione di un costante tono affabulatorio.
La felicità della fabulazione è temperata dalla lucida consapevolezza adulta dell’artista che bagna ogni composita iconografia nella temperatura distorcente di uno stile quasi nordico e sicuramente espressivo.
Ogni composizione sembra assumere la frontalità del teatrino popolare, un “teatro dei pupi” capace di tradurre il sublime in delicate marionette del presente. Il senso del gioco muove dunque il processo creativo della Crespo che non vuole infantilizzare la cultura, piuttosto modellarla in una misura del presente, nella direzione tascabile di una memoria soggettiva.
Legno, stucco, creta, cartapesta, metalli vari, stoffa, carta,
stagnola, fiori tinti, pizzo, bijoux, oggetti trovati, riciclati,
fili di stoppa o di seta, polistirolo trattato, sughero, sono i
materiali costitutivi del suo universo iconografico. Addensati e
condensati in piccoli box di legno, da un formato 20 x 30 x 15 a
un massimo di 70 x 100 x 15.
Boîte en valise di una memoria che non dimentica naturalmente l’ironia dell’arte contemporanea.
Quella che corre nella dimensione trasportabile del Dadaismo duchampiano, del surrealismo di Ernst fino alle scatole di Cornell.
Nella piccola e media dimensione si scatena per implosione il processo creativo che aggrega mondi culturali lontani, iconografie differenti e citazioni di generi disparati tra loro.
Associazione e condensazione reggono la polluzione fantastica della Crespo che sembra voler riprodurre nella piccola dimensione la misura densa e pure feroce della fantasia infantile.
In questo caso però l’arte è frutto di una tecnica e dunque di un’ elaborazione linguistica, applicazione adulta di un procedimento formativo per niente istintuale e selvaggio.
Necessario è l’ordine quando la casa si fa piccola, l’abitacolo è circoscritto in una architettura quasi tascabile. L’ordine adulto della forma prende necessariamente il sopravvento per poter approdare all’atto formativo.
Tale atto è il risultato di un intenso lavoro tecnico, intreccio tra manualità pittorica ed oggettuale, manipolazione di figure non soltanto dipinte ma realizzate tridimensionalmente sul piccolo palcoscenico dell’opera.
Le figure hanno la dignità di presenze vestite di veri e propri abiti, pronte ad una rappresentazione ormai incancellabile.
Per questo portano su di sè il decoro dell’abbigliamento, gli abiti di una festa particolare, quella del colloquio interno tra loro e quello della visibilità prodotta all’esterno nella direzione dello spettatore.
Da qui si arguisce la destinazione inevitabilmente sociale dell’opera, aperta all’incontro col pubblico e pronta ad intercettarne attenzione e contemplazione.
Profonda è la scena prodotta dalla Crespo, costruita secondo i canoni della profondità prospettica che accoglie lo spazio del racconto come un alveo e un deposito protettivo. In qualche modo tale profondità sembra anche proteggere l’immagine nella sua irruzione nel presente.
La profondità prospettica è naturalmente il riconoscimento della storia, frutto di una coscienza dell’artista che oppone la sua costruzione alla bidimensionale spettacolarità del nostro presente.
Infatti l’occhio disabituato dello spettatore si trova a dover affrontare il disagio dello sprofondamento negli interni della scena, nell’intrigo spaziale che condensa dentro di sé i diversi piani dell‘ immagine.
Si crea una sintonia tra tale disagio, fertile provocazione prodotta dall’opera, ed il grottesco in essa sprigionato. L’incontro dunque di un doppio sforzo, quello del creare e del contemplare, artista e pubblico, opera e corpo sociale.
Perciò il grottesco non è un semplice stile, piuttosto il frutto di una riflessione dell’artista consapevole dell’epoca in cui viviamo, attraversata dalla perdita dei modelli di bellezza e di quelli del vivere quotidiano.
La deformazione delle figure non è dissonante rispetto a un sereno guardare l’opera d’arte. Semmai è l’oggettivo risultato di uno sforzo della memoria soggettiva in un presente oggettivamente senza memoria.
L’arte diventa la salutare imposizione di tale sforzo, la delicata dittatura della fantasia individuale sull’indifferenza collettiva della cosiddetta società moderna.
Essere moderni significa anche essere conflittuali. La Crespo sviluppa una sana conflittualità verso l’esterno mediante la costruzione di un linguaggio abitato da figure che ricordano tutto, anche il proprio spiazzamento in un presente teoricamente inospitale.
Perciò la Crespo crea una sua ospitalità alle figure, le protegge attraverso la misura della dimensione e la cornice del box. Il campo così delimitato dell’immagine diventa una sorta di buco nero entro cui lo spettatore sprofonda la propria disattenzione per trovarsi allegramente atterrito di fronte alla miniaturizzazione della storia, diventata favola o dramma visivamente tascabile.
Ecco allora scaturire una sana tensione che si sviluppa dall’iconografia dell’opera e si propaga a cerchi concentrici verso l’esterno come l’epicentro di un terremoto che devasta salutarmente ogni codice spettacolare.
L’arte adempie il suggerimento nicciano riguardante la necessità di distruggere per poter poi successivamente meglio costruire, prima la decostruzione e poi la strutturazione di nuovi universi iconografici.
L’universo iconografico della Crespo è frutto di un profondo meticciato linguistico e disciplinare, ricco di forme e materiali fino ad un voluto ingorgo dello spazio che rasenta l’horror vacui del barocco.
La ricchezza di tale universo iconografico accoglie dentro di sé positivamente l’incoerenza di poetiche formalmente contrapposte, la vitalità mediterranea del Barocco e la spiritualità quaresimale della letteratura nordica, il Quattrocento senese di Neroccio e del Sassetta e il Seicento di Domenico Fetti, o del polacco Bartolomeo Strobel, il Settecento di Fragonard e del Solimena e gli spiritualisti lionesi dell’Ottocento, il romanticismo di Friedrich e il Novecento della Scuola Romana.
Tale catalogazione di citazioni viene comunque inchiavardata dentro la cultura specificamente postmoderna degli ultimi decenni del nostro secolo condensati nel nomadismo culturale ed eclettismo stilistico della Transavanguardia.
L’ibridazione iconografica della Crespo trova il suo approdo definitivo nella titolazione delle opere, l’intreccio tra il loro interno grottesco e l’esterno sublime del titolo:”Svenimento umbro”, “Veronica Massonica”,”Madrigale a Proserpina”, “Animula Bockliniana”, “L’oscuro grembo del Tumulo”.
Il grottesco dell’opera richiede il sublime del titolo, sublimazione anche della sua difficoltà di comunicare la propria fertile inattualità. In tal modo la titolazione diventa un’ ulteriore operazione culturale dell’artista che mette in vetrina le proprie immagini mediante l’offerta moderna di un cartellino rassicurante e valorizzato da offerte lessicali come “madrigale a un dolce usignolo” oppure “l’altura del mondo appena nato”.
Ecco farsi largo la coscienza fine secolo di Maria Cristina Crespo che per dare ospitalità alle figure del proprio immaginario e protezione al grottesco delle sue figure costruisce intorno all’opera un perimetro letterario che vaporizza ogni difficoltà e rende accessibile l’opera sconfiggendo la disattenzione del corpo sociale.
Achille Bonito Oliva
Testi Critici
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